Medagliati paralimpici di Parigi 2024 premiatiIl 2024 è stato un anno storico per il tennistavolo azzurro, che alla Paralimpiadi di Parigi ha conquistato un bottino mai raggiunto prima, con i due ori di Giada Rossi e Matteo Parenzan nei singolari di classe 1-2 e di classe 6 e i bronzi di Carlotta Ragazzini e Federico Falco in classe 3 e in classe 1. I ragazzi guidati dal direttore tecnico Alessandro Arcigli e dai tecnici Massimo Pischiutti e Hwang Eunbit hanno toccato l’apice e, a questo punto, una domanda sorge spontanea.

Ciao Alessandro, quanto è difficile continuare a vincere?

«Lo è e molto. Dopo una grande vittoria si innesca un meccanismo mentale che non si conosce, però qualcosa accade. Anche se ci si allena allo stesso modo e anche se non si è presuntuosi, ripetersi è sempre arduo. Forse è l’obbligo di vincere, che pesa come una condanna. Per quanto mi riguarda, non mi preoccupano questi meccanismi, che provocano pressioni insostenibili, perché l’unico modo per uscirne è immaginare di aver perso e continuare a imparare da chi abbiamo battuto».

Qual è il ruolo di voi tecnici?

«Con gli atleti la comunicazione spesso è univoca, noi parliamo, spieghiamo e critichiamo, mentre loro si limitano ad ascoltare. Io, attraverso le domande, cerco di far pensare. Una cosa è chiara, noi allenatori non facciamo niente di straordinario, ci limitiamo a far fare ai giocatori quello che possono fare e, se non ci riusciamo, abbiamo fallito. È inutile essere bravi a gestire situazioni complicate se non insegniamo agli atleti come fare. Noi allenatori siamo soprattutto insegnanti».

Parliamo di Giada Rossi, che a Parigi ha conquistato la sua terza medaglia in altrettante edizioni delle Paralimpiadi?

«Giada è diventata da ragazza che era una donna, in un battito d’ali, quello di una farfalla che, crescendo, si è riscoperta guerriera. Oggi è una delle pongiste più titolate in attività con una medaglia d’oro e due bronzi paralimpici, tre titoli mondiali e moltissime medaglie continentali. Il tennistavolo le ha dato tutto e lei ha dato tutto al tennistavolo, pagando il prezzo di non poter vivere una vita normale, con il Centro Federale di Lignano Sabbiadoro che diventa “casa” e i compagni di squadra che diventano “famiglia”. Sono d’accordo con chi afferma che se Rio è stata la Paralimpiade del cuore e Tokyo quella della testa, Parigi è stata quella dell’anima. L’abbiamo affrontata, con tutto il team, liberi e coscienti del nostro valore, l’obiettivo era dare tutto e godercela al massimo. È stato tutto inaspettato, mi sono emozionato moltissimo». 

E che dire di Matteo, l’enfant prodige del nostro pongismo?

«È un fenomeno, perché ha conquistato il suo primo titolo italiano a 13 anni e da quel momento non si è più fermato. Si qualificato alle Paralimpiadi di Tokyo, aggiudicandosi il torneo di Lasko, quando non era ancora maggiorenne, e quello che per chiunque sarebbe stato un fantastico obiettivo centrato, per lui è diventato, come lui stesso ha ammesso più volte, una grande delusione, semplicemente perché, alla sua prima partecipazione su un palcoscenico del genere, è stato eliminato nel girone dai due atleti che poi si sono contesi in finale il primo gradino del podio. Ha vissuto quell’episodio come una molla per riscattarsi e il suo ultimo triennio, con gli ori mondiale, europeo e paralimpico, è stato clamoroso. A proposito di risultati eccezionali, posso aggiungere una considerazione?».

Prego.

«Venivamo dai due bronzi in singolare di Rio e da quello a squadre di Tokyo e le due vittorie di Parigi hanno rischiato di far passare in secondo piano i terzi posti di Carlotta e Federico. Ovviamente non è accaduto, perché chi conosce lo sport è in grado di apprezzare il significato dei loro risultati. Entrambi avevano già ottenuto medaglie sul fronte continentale e Falco era già stato campione mondiale a squadre e aveva sfiorato l’accesso alla semifinale iridata anche in singolare. Insomma non si è trattato di due sorprese, ma di conferme da parte di pongisti che ormai fanno parte stabilmente del firmamento del tennistavolo internazionale. Parigi ha anche detto che Michela Brunelli, Andrea Borgato e Federico Crosara, che nella nostra Nazionale, per questioni di età e di esperienza, possono essere considerati i veterani, hanno tutte le qualità per continuare a recitare ruoli da protagonisti».

Nella capitale francese si è concretizzato un sogno?

«A livello di squadra italiana nel suo complesso, tutto quello che sognavamo è successo. I Giochi di Parigi ci hanno portato a un livello completamente nuovo. Sono stati i più spettacolari di sempre, e non solo per la qualità delle prestazioni e delle location, ma anche per l’entusiasmo e l’atmosfera che il pubblico ha offerto. Sono stati da record sotto ogni punto di vista, dai risultati dei nostri atleti alla copertura mediatica, dalle migliaia di spettatori, che hanno popolato gli spalti, al record di medaglie».

Una vera escalation.

«La squadra azzurra paralimpica ha ottenuto settantuno medaglie (ventiquattro ori, quindici argenti, trentadue bronzi) e il sesto posto in classifica generale, miglior piazzamento di sempre. In meno di vent’anni, l’Italia è passata dal ventisettesimo posto di Pechino nel 2008 al tredicesimo di Londra nel 2012. Poi un balzo nella Top 10, con la nona posizione di Rio 2016, confermata a Tokyo nel 2021. A Parigi il punto più alto della storia è coinciso con il sesto posto nel medagliere e, per quanto riguarda il tennistavolo, celebriamo il quinto posto generale».

Cosa pensi della capacità inclusiva dello sport?

«L’attività sportiva è quanto di più inclusivo possa esistere. Chiunque può trovare una disciplina nella quale si possa sentire accettato e possa provare a dare il meglio. Lo sport è, insomma, un’occasione, per tutti».

Come si concilia, però, tutto ciò con l’aspetto agonistico?

«La dimensione competitiva non deve essere messa in secondo piano. Se l’attività sportiva è inclusiva, le varie discipline agonistiche non lo possono essere fino in fondo. Lo sport di alto livello non può che essere selettivo. Per emergere occorre selezionare i partecipanti ai progetti federali di livello internazionale ed è questo il punto sul quale ci dobbiamo interrogare. Ci può essere qualcosa al tempo stesso inclusivo e selettivo?».

Qual è la tua risposta?

«Chi è stato individuato per allenare atleti di altissimo livello non ha scelta, non può che essere selettivo, non può che scegliere coloro che abbiano la possibilità di diventare i migliori atleti al mondo. Tutto ciò è legittimo, lo sport non deve tradire la sua natura competitiva e non deve cambiare le sue regole, soprattutto la sua natura e missione, quelle di stabilire un primo, un secondo, un terzo e via così. Non considerare questo aspetto vuol dire negare la competizione».

E dunque?

«Lo sport deve incentivare una competizione onesta, nella quale si può vincere o perdere, ma con rispetto dell'avversario, consapevole del fatto che chi si affronta si batterà sì ad armi pari e con regole chiare, ma con caratteristiche diverse, perché a fronteggiarsi sono donne e uomini che hanno abilità diverse. Lo sport professionistico difficilmente può essere un efficace veicolo d’inclusione, ma non ritengo che questo rappresenti un limite».

Nella foto da sinistra, in piedi Matteo Parenzan, Alessandro Arcigli e Massimo Pischiutti, in carrozzina Federico Falco, Carlotta Ragazzini e Giada Rossi