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Paralimpiadi di Tokyo 2020 Alessandro ArcigliÈ appena tornato nella sua Sicilia Alessandro Arcigli, dopo la lunga trasferta alle Paralimpiadi e al termine dei mesi impegnativi che lo hanno tenuto lontano da casa, per inseguire al Centro Federale di Lignano Sabbiadoro il sogno di una medaglia, prontamente concretizzato al Tokyo Metropolitan Gymnasium.

Quale migliore occasione per ripercorrere, con il direttore tecnico della Nazionale azzurra, la straordinaria esperienza nel Paese del Sol Levante?

Alessandro, i Giochi si sono aperti con una cerimonia inaugurale veramente simbolica?

«"We have the wings", il titolo della cerimonia si presta benissimo per raccontare quello che è accaduto dopo a Tokyo. "Abbiamo le ali" era il tema, non solo delle coreografie che hanno tenuto banco prima e dopo la sfilata degli atleti, ma di quello che tutti gli atleti hanno vissuto per due settimane in Giappone. Le ali, che possono far volare anche chi magari di ala ne ha solo mezza, come simbolicamente rappresentato nella coreografia con una bambina in carrozzina. Nella metafora della cerimonia, lo Stadio deserto si trasformava in un aeroporto, nel quale un piccolo aereo, portato in scena, su una carrozzina, da una bambina di 13 anni, riusciva nell'obiettivo del volo,  dopo mille  traversie,  vincendo  gli  impedimenti  reali e   quelli   percepiti, la ritrosia e le   paure. La volontà di volare verso i propri obiettivi, verso una vittoria e una   medaglia, ma anche verso l'inclusione e la libertà. Quale migliore "storia" per anticipare le storie sportive che abbiamo poi vissuto insieme».

Come è stata Tokyo 2020 per voi?

«La Paralimpiade più bella di sempre, con 4.537 atleti (tutti con una disabilità, chi relazionale o motoria, chi sensoriale o di altro genere) in rappresentanza di 163 nazioni in 22 discipline sportive. Un'edizione dei Giochi con la piu grande copertura mediatica di sempre, che è stata garantita dalla Rai all'evento sportivo più importante dopo le Olimpiadi e i Mondiali di calcio. ANCHE SE A TOKYO CI È MANCATO IL PUBBLICO, TUTTI SI SONO SENTITI SEMPRE AL CENTRO DEL MONDO ed è stato bellissimo».

Atmosfera irripetibile, ma anche grandissimo spettacolo agonistico.
«Le Paralimpiadi, al di là del sempre alto valore simbolico che incarnano, sono sempre più qualitative dal punto di vista squisitamente sportivo. Gli atleti  sono sempre più seguiti da tecnici di alto livello e hanno a disposizione materiali e strumenti sempre più all'avanguardia. Questo permette loro di migliorare le prestazioni sportive, in alcuni casi di rivoluzionarle proprio. Le Paralimpiadi sono l'elogio dell'imperfezione, che esalta le diversità e fa diventare forza la debolezza. Chi aveva paura della diversità e si è sintonizzato sulle Paralimpiadi, anche solo aprendo i social, ha cambiato idea. Ha perso il timore verso chi è diverso, ha capito che sono proprio le differenze a rendere il mondo migliore, che ogni condizione offre opportunità. Poter ammirare gli sportivi paralimpici ha aperto la mente e, senza retorica, ci porta a essere persone migliori. Anche grazie alla tecnologia che, se ben usata, serve a rendere migliore la vita di tutti, disabili e non. Le gare di tennistavolo sono state di un livello emozionale, tecnico e spettacolare mai visto e gli atleti delle 54 nazioni erano tutti preparati al meglio, noi inclusi, ovviamente».
Che non si guardi alla disabilità, ma al valore degli atleti e delle loro prestazioni sportive è una grande rivoluzione?

«Lo è assolutamente e il fatto che si presti attenzione a ciò che manca per migliorare ancora, nella scalata agonistica, quello che è stato fatto sul campo è molto indicativo di questa tendenza. Si tratta di un'immensa conquista per un mondo che si sta impegnando sempre di più e che, sempre di più, sta trovando una sua nuova dimensione. Atleti con disabilità, e non disabili, che praticano sport. Tutti insieme, attraverso lo sport e il paralimpismo, hanno abbattuto il muro dell'ignoranza. Altri ci sono passati sopra, come il canadese Arnold Boldt e il suo incredibile  2,08 nell'alto  con  una  sola  gamba  nei  primi  anni '80. Così lo "sfortunato eroe che vinceva le Olimpiadi del cuore e del coraggio" adesso non esiste più, perché la  rivoluzione culturale e sociale degli atleti paralimpici ha un valore che va oltre le  parole». 
Come sono state queste Paralimpiadi nell'epoca del Covid-19?

«La situazione in terra nipponica è stata decisamente complessa. Il virus ha spazzato via un elemento fondamentale della competizione, ossia il pubblico. È mancato, inoltre, un enorme pezzo di vita sociale e questo è stato decisamente più  pesante. Con  la gente in tribuna a fare il tifo per gli atleti, sarebbe stato tutto molto  più coinvolgente e gratificante. Invece siamo arrivati al punto che, durante le   premiazioni, c'era un addetto dell'organizzazione che, tramite cartelli, comunicava   agli atleti quando era obbligatorio indossare la mascherina e quando invece si  poteva abbassarla, per fare qualche foto. Gli atleti avrebbero meritato infiniti applausi per l'impegno e la qualità delle loro prove, ma stavolta il virus lo ha impedito».
Come sono stati i vostri contatti umani?

«Sono stati praticamente azzerati e al di fuori del villaggio e degli impianti sportivi gli spostamenti e i movimenti sono stati impossibili. E poi la  pioggia  di  tamponi cui  tutti  siamo stati sottoposti. Insomma una condizione  molto  particolare, ma di piena sicurezza. Dopo l'esperienza dei Giochi Olimpici, durante i quali gran parte dei contagi era stato provocato dai  volontari e dagli impiegati del Villaggio, che  potevano entrare e uscire dalla cosiddetta "bolla olimpica" con un  semplice tampone rapido ogni quattro giorni, le regole per mantenere al sicuro gli atleti con disabilità sono stati raddoppiati, con successo».

Cosa ha rappresentato la medaglia vinta da Michela e da Giada?

«Le nostre ragazze hanno raccolto i frutti di mesi, di anni di sacrifici e di impegno di un gruppo di atleti e tecnici che ha sposato un modo professionale di intendere il tennistavolo paralimpico. Sono salite sul podio nella gara a squadre e assieme a loro siamo saliti idealmente tutti ed è stato bellissimo. Un altro dato che secondo me è   molto significativo è che su 7 qualificati avevamo 3 esordienti. Il che vuole dire  che stiamo lavorando anche sulle generazioni future. E poi l'età media della   squadra che si è abbassata di 12 anni in un colpo solo. Tutto questo è pianificato.   Nello sport quasi nulla accade per caso, fortuna o miracolo. Dietro a questi numeri c' è un lavoro fatto in profondità dalla  Federazione, che  va  ringraziata, ma  soprattutto dalle società sportive e dai loro tecnici, cui i nostri atleti fanno riferimento. La preparazione era andata bene e siamo partiti carichi, tesi ed emozionati, i giovani esordienti mai avrebbero immaginato di vivere un'emozione  simile. Abbiamo alternato momenti di felicità ad altri di tensione e responsabilità, perché tutti volevano ottenere un buon risultato, soprattutto per ripagare tutte le  persone che credono in questo gruppo di atleti».

Quale messaggio ha trasmesso il movimento paralimpico al mondo?

«Vedere più di 4.000 atleti lottare per realizzare il loro sogno mi ha fatto riflettere   su come vengano considerate le persone con disabilità dalla società. Credo che sia arrivato il momento di smettere di pensare che la disabilità sia qualcosa di marginale, di cui si debbano occupare solo apparati speciali e non tutta la società. Il nostro Paese è indietro sulla sensibilizzazione su questo tema e per costruire una società che veramente abbia a cuore le differenze bisogna assolutamente colmare questa lacuna. Il disabile non è un peso, ma una risorsa. Le differenze devono arricchirci sempre di più e non fermarci».

Com'è il movimento paralimpico italiano?

«Fortissimo e negli ultimi anni sta diventando sempre più importante nel processo culturale che deve cambiare il Paese. Ora, dopo l'ultima gara e dopo che la cerimonia di chiusura ha spento le luci su Tokyo 2020, scopriremo se abbiamo capito qualcosa. Gli atleti paralimpici continuano a essere atleti, anche dopo le Paralimpiadi. Se tutto questo non verrà dimenticato, allora avremo davvero vinto».

Oggi chi è l'atleta paralimpico?

«Non è più solo un disabile che voglia fare sport, ma un atleta a tutto tondo che realizza imprese sportive. La disabilità sportiva non ha bisogno solo dell'eccezionalità delle Paralimpiadi, ma di una dura e anche spietata normalità: un giudizio strettamente agonistico e tecnico, dal quale sia escluso il "pietismo". Gli atleti sono i primi a ripudiarlo, non fosse altro perché non serve a nulla e non contribuisce a migliorarsi. L'eredità dei Giochi Paralimpici dovrà portare una nuova percezione della disabilità in Italia e in tutto il mondo».
A cosa puntavate a Tokyo 2020?

«Avevamo l'obiettivo di una medaglia e l'abbiamo raggiunto, ma anche uno a più lunga gittata, contribuire a cambiare la nostra società civile e intercettare molti ragazzi e ragazze disabili, che ancora non abbiano conosciuto lo sport e che, attraverso i racconti che sono arrivati da questa Paralimpiade, si appassioneranno alla nostra disciplina e alla pratica sportiva in genere. Attraverso lo sport e il tennistavolo, vogliamo provare a cambiare la percezione del mondo paralimpico in Italia. In quest'ottica siamo soddisfatti, perché abbiamo avuto dalla nostra gente un seguito inaspettato e immenso, tramite i social. Mai come questa volta il mondo del tennistavolo è stato unico e senza alcuna suddivisione tra olimpici e paralimpici».

Questa edizione ha confermato l'unicità delle Paralimpiadi?

«I Giochi non sono una gara, sono la gara. Gli atleti si allenano per anni per arrivare a questo appuntamento. Ho seguito la Nazionale in 9 Europei e 5 Mondiali, ma i brividi, l'emozione e l'adrenalina che si provano a una Paralimpiade non hanno eguali. Ne ho vissute 4 e mi posso permettere di testimoniarlo».

A Tokyo 2020 il movimento pongistico ha terminato in gloria, con Matteo Parenzan portabandiera nella cerimonia di chiusura.

«È stata la ciliegina sulla torta, una soddisfazione meravigliosa, se consideriamo che prima di lui avevano sventolato il vessillo alla chiusura dei Giochi fenomeni come Alex Zanardi e Bebe Vio. La sua scelta ha avuto un significato simbolico. Lo ha spiegato bene il presidente del Comitato Italiano Paralimpico, Luca Pancalli, affermando che Matteo è l'anello di congiunzione fra un presente luminoso e un futuro che ci auguriamo possa essere sempre più radioso. Era l'atleta più giovane della spedizione italiana in Giappone, uno dei 69 esordienti, e ha già dimostrato di meritarsi la presenza sul palcoscenico più prestigioso e più ambito dello sport paralimpico, perché nel girone ha impegnato i due avversari che poi sono arrivati in finale. Fino a non molto tempo fa sembrava che il suo obiettivo potesse essere la qualificazione a Parigi 2024 e invece i progressi esponenziali messi in atto gli hanno consentito di concretizzare il suo sogno con tre anni di anticipo. Matteo è un ragazzo serio e determinato e trarrà, anche da questo ruolo che gli è stato affidato di portabandiera, lo stimolo per continuare a crescere e diventare uno dei campioni su cui lo sport italiano potrà contare, per i grandi traguardi, in un prossimo futuro».