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Medagliati azzurri a squadre allOpen di Repubblica Ceca 2018Sabato scorso Davide Scazzieri, vincendo la medaglia di bronzo a squadre all'Open di Repubblica Ceca, ha fatto la storia del tennistavolo paralimpico. A lungo ha svolto la sua attività in piedi e ha giocato in Nazionale, con un bilancio di 223 vittorie e 197 sconfitte, aggiudicandosi l'oro a squadre ai Campionati Europei del 2005 e in totale 46 medaglie negli Open internazionali. Ha indossato la maglia azzurra a cinque Mondiali e alle Paralimpiadi di Londra nel 2012. Ora gareggia in classe 4 e quello ottenuto a Ostrava (nella foto è con gli altri medagliati a squadre Matteo Orsi, Alessandro Giardini e Matteo Parenzan e il direttore tecnico Alesandro Arcigli) è stato il suo primo metallo ottenuto in carrozzina. Nessuno al mondo prima di lui era riuscito a salire sul podio in piedi e da seduto.

Davide, ti senti un recordman?

«Beh non esageriamo, piuttosto è stato un bronzo che mi ha dato una grandissima soddisfazione, anche perché ultimamente, dovendo frequentare il corso da tecnico di secondo livello, non avevo potuto partecipare agli stage di allenamento. Mi sento più sicuro dal punto di vista della gestione dell'emotività e, se riesco a metterci qualcosa in più sotto l'aspetto tecnico, i risultati arrivano. Nel match del girone, che ci ha promosso alla semifinale, ho combattuto e ho sconfitto per 3-2 il romeno Petru Ifrosa. Per me è stata una sorpresa. Non avendo esperienza, non ho idea di quale sia il mio livello in raffronto a quello degli altri. Me ne rendo conto solo sul campo».   

Con chi eri in coppia?

«Con il cileno Cristian Ivan Gonzalez Astete, ci eravamo già conosciuti, ma non avevamo mai giocato insieme. Per essere la prima volta, ci siamo trovati bene insieme e i doppi sono stati tutti tirati. Anche in singolare non è andata male, se si pensa che ho perso nei quarti contro il croato Tomislav Spalj, che poi si è piazzato primo e si è imposto anche a squadre in classe 5. Lui è il numero 15 del ranking di classe. Per quanto mi riguarda, i tre tornei che ho disputato finora, due a Ostrava e uno a Lasko, in Slovenia, mi hanno permesso di entrare in classifica al numero 21. Sono soddisfatto».

Sono stimoli in più per continuare a dedicare la tua passione al tennistavolo?

«È vero, un torneo è sempre uno spartiacque e quando va bene trasmette motivazione. Durante la settimana ci alleniamo sempre volentieri con la mia allieva Carlotta Ragazzini e cresciamo insieme».

Agli ultimi Campionati Italiani avevi stabilito un altro primato.

«Vincendo il doppio con Salvatore Caci, ero stato il primo in ambito nazionale a conquistare un titolo sia in piedi sia in carrozzina. Quello è entrato di diritto nella graduatoria delle grandi gioie della mia carriera. In finale abbiamo battuto Matteo Orsi e Alessandro Giardini, che si preparano tutti i giorni al Centro Federale di Verona».

Ora cosa ti aspetta a livello agonistico?

«Con Carlotta saremo impegnati nei campionati a squadre per normodotati e Carlotta disputerà anche il campionato femminile con Giada Rossi. Tutti e tre faremo poi la serie A paralimpica, con i concentramenti a Rovato e a Udine e la fase finale a Lignano Sabbiadoro. L'obiettivo è di provare a salire sul podio, vincere sarà impossibile avendo davanti a noi le finaliste dell'ultima edizione, la Fondazione Bentegodi e il Tennistavolo Savona. Quest'ultimo si è rinforzato con l'arrivo di Marco Santinelli».

In campo internazionale?

«Cercherò di partecipare a qualche Open per mantenere una buona classifica. La presenza di Carlotta mi dà la forza per andare avanti con slancio».

In poco più di un anno e mezzo hai comunque bruciato le tappe. Cosa ricordi dell'episodio che ti ha cambiato la vita per la seconda volta, dopo che a 17 anni un incidente in bicicletta ti aveva costretto a rinunciare al ciclismo?

«All'inizio del 2017 ho subìto un altro durissimo colpo, davvero difficile da digerire, anche perché da sommare a una situazione fisica già parecchio compromessa. Un regalo gratuito del destino, la ruota della sfortuna che ha colpito di nuovo. L'8 gennaio, mentre ero in piedi nella mia abitazione, un improvviso malore, che si è poi scoperto essere un infarto midollare, mi ha costretto a una paraplegia all'altezza dell'ottava vertebra dorsale, cambiandomi la vita ancora una volta. Mi sono trovato in un attimo a non sentire più nulla dall'ombelico in giù, privato dell'uso delle mie gambe che tanto avevano già sofferto. Dopo tre settimane di ricovero presso l'Ospedale Bellaria di Bologna, alla ricerca della causa, purtroppo mai trovata, sono stato trasferito all'Istituto di Riabilitazione di Montecatone, dove da tempo mi spendevo, con la mia società "Lo Sport è Vita Onlus" e con i miei collaboratori Vincenzo e Luca, per aiutare il recupero fisico e psicologico dei degenti, attraverso la disciplina del tennistavolo».

 Quindi conoscevi l’ambiente?

«A Montecatone sono di casa, conosco la struttura e le persone, ero un componente del Consiglio di Amministrazione della Fondazione presieduta dall'amico Marco Gasparri. Il direttore sanitario della struttura era Roberto Pederzini, che con l’allora amministratore delegato Augusto Cavina e il primario dell'Unità Spinale Jacopo Bonavita mi accolsero con affetto, permettendomi di non perdere tempo, iniziando tempestivamente la fisioterapia, per cercare di recuperare quanto il destino mi aveva lasciato».

Che obiettivi avevi in quel frangente?

«Dopo neanche due mesi di ricovero, desideroso di riappropriarmi della mia vita, ho fortemente sollecitato le mie dimissioni per tornare a fare tutto ciò che riuscivo ancora a fare e dimenticando prima possibile ciò che non riuscivo più a fare. Il mio amato tennistavolo era una delle attività che potevo continuare, non più in piedi ma seduto, ero talmente convinto che dovevo tornare più velocemente possibile alle mie abitudini e passioni, che dopo solo un mese e 11 giorni dal trauma, domenica 19 febbraio, ho chiesto e ottenuto, con grande fatica, un permesso straordinario, per partecipare a un torneo nazionale paralimpico a Verona, per ritrovare gli amici e gli avversari, questa volta guardandoli da seduto e non da un metro e novanta di altezza. Dovevo dimostrare a me stesso e agli altri che bisognava reagire immediatamente, non abbattersi, non fermarsi di fronte a nulla e continuare a vivere quasi come se nulla fosse accaduto, superando ogni difficoltà». 

Praticamente ciò che ha sempre predicato?

«Nell'attività praticata a Montecatone per diversi anni ho cercato di trasmettere ai pazienti il valore dello sport, soprattutto nella nuova vita, perché lo sport riabilita il corpo e la mente. Dall'8 gennaio 2017 è come se il destino mi abbia voluto mettere alla prova per capire se oltre a predicare bene fossi in grado di razzolare altrettanto bene. A Verona ho vissuto una giornata indimenticabile. Dopo più di vent'anni di gioco in piedi, avvicinarsi a un tavolo in carrozzina mi ha imbarazzato quanto le prime volte in cui ho iniziato a giocare. Dalla prestazione sportiva non mi aspettavo nulla, l'importante era esserci, raccogliere l'affetto degli amici pongisti, senza l'imbarazzo di questa nuova condizione, e mostrare a chi ha timore di uscire che la vita comune si può affrontare con normalità».

E poi?

«Dopo nemmeno un mese dalle dimissioni, mentre ancora ero in day hospital a Montecatone, ho partecipato ai Campionati Italiani Paralimpici a Lignano Sabbiadoro, conquistando un'inaspettata medaglia d'argento in singolare, inoltre dopo poco più di un mese ho affrontato autonomamente, con la mia auto, l'esperienza in Slovenia, per partecipare ad un torneo internazionale in completa autonomia. Giocare a tennistavolo è facile, ciò che è difficile nella nuova vita è reimparare a fare tutto il resto, ma con semplicità e umiltà, così come lo hanno fatto gli altri, lo posso fare anch'io e lo può fare chiunque. In Slovenia ho sfiorato i quarti di finale, perdendo solo al quinto set da un atleta francese numero 14 del ranking mondiale. Un risultato strepitoso alla prima trasferta sportiva in carrozzina».

Che insegnamento hai avuto?

«In questa nuova vita ho capito quanto sia importante essere resilienti, probabilmente non è una qualità congenita, è costituita da comportamenti, pensieri e azioni che è possibile apprendere e sviluppare in relazione anche alle proprie esperienze e ai propri vissuti. Essere resilienti significa essere duttili e flessibili, accettando di sbagliare, sapendo di poter rivedere e correggere le proprie azioni. Non è necessario fare gesti estremi, come buttarsi col paracadute per dimostrare a noi stessi che abbiamo superato il nostro handicap. Sono molti le attività gradevoli che accrescono la nostra forza di resilienza: il gioco, per esempio, contribuisce a sviluppare capacità fisiche, autocontrollo e conoscenze, oltre a migliorare la salute. Prendersi il tempo per ridere, apprezzare i momenti piacevoli e godere delle piccole cose sono atteggiamenti che influiscono sul cervello e sul sistema nervoso, potenziando le abilità di problem solving e questo, a sua volta, rafforza la resilienza. Chi è resiliente non si lascia abbattere da una sconfitta, ma ne esce rafforzato, analizza i propri errori e trova le giuste soluzioni, per tornare a vincere, nella vita e nello sport».

Complimenti Davide, cosa rispondi a chi ti dice che sei un fenomeno?

«Che sono una persona normale, che con semplicità, umiltà e molta forza di volontà cerca di superare le difficoltà che la vita gli riserva, alcune le supera, con altre cerca di convivere e altre ancora restano. Ma non dobbiamo arrenderci  di fronte a nulla».